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sabato, marzo 22, 2008


1. 1- Gli interrogativi sulla conoscenza e l’utilizzazione da parte di Dante di fonti escatologiche arabe e particolarmente del Libro della Scala e, in generale, sulla posizione del poeta rispetto al mondo islamico, alla sua cultura, alle concezioni escatologiche soprattutto, sono tornati in qualche modo attuali per un concorso di circostanze. Tra queste il fatto che la tesi delle fonti arabe della Divina Commedia è stata ed è sostenuta da parte di qualche critico con nuova convinzione, anche se sostanzialmente non con nuovi argomenti rispetto alle discussioni aperte dalla pubblicazione dell’opera dello spagnolo Miguel Asín Palacios.
Sulla diffusione e l’influenza, a volte ampia e profonda, del pensiero arabo, e averroistico in specie, presso gli intellettuali occidentali nel Due-Trecento e, per l’Italia, negli ambienti della corte di Federico II e Manfredi, nella cerchia dei pensatori della scolastica e nell’area della poesia stilnovistica, si hanno ormai conoscenze esaurienti. Ma sulla cultura di Dante in generale è prudente muoversi con le opportune cautele, riconoscendone limiti e lacune. Ed è prudente pure ricordarsi che molta parte del patrimonio culturale medievale circolava attraverso mediazioni orali e scritte, raccolte antologiche, riassunti.
Bisogna anzitutto capire quale fosse la sua posizione nei confronti del mondo islamico come insieme e realtà storico-religiosa nella Divina Commedia. Una chiara idea si ricava dal trattamento che egli riserva a Maometto, posto tra i seminatori di discordie, nella nona bolgia dell’ottavo cerchio. Guardiamo al modo con cui questa figura è rappresentata. Un modo che vuol essere distruttivamente umiliante. L’impianto formale, soprattutto nel livello semantico-lessicale, traduce la natura del giudizio. Intanto tutta la rappresentazione dei dannati della nona bolgia, come si è accennato, è funzionale a mostrare una realtà di sozzura. Realtà materiale e, per connessione ****forica, morale. Ma non può non stupire il giuoco linguistico messo in opera per la descrizione di Maometto e per le parole che lui pronuncia. Trentatré sono i versi in cui è descritto o parla. Dante concentra una serie di termini funzionali, per la loro volgarità semantica e asprezza fonica, a connotare gli oggetti della rappresentazione come realtà degradata e anche disumana: «fesso», «fessi», «merda», «veggia», «mezzul», «lulla», «pertugia», «trulla», «minugia», «corata», «trangugia», «m’attacco», «dilacco», «storpiato», «ciuffetto», «scandalo», «scisma», «accisma», «risma», «muse». La maggior parte di essi traducono una condizione e un punto di vista fondati essenzialmente su una materialità e una fisicità non solo bassamente anatomica e fisiologica, ma anche animali più che umane.
Questo giudizio su Maometto troverà piena conferma alla fine del Purgatorio, nella visione apocalittica dei canti XXXII e XXXIII, nei versi in cui il fondatore dell’Islamismo è evocato nella figura del drago, cioè nel suo profondo significato simbolico di figura fondamentale nel processo di decadenza della Chiesa.
La rappresentazione complessiva di Maometto si può interpretare dunque come denuncia della più grave divisione subita dal mondo cristiano e insieme del fallimento abissale rispetto all’assoluto e all’eterno di una scelta religiosa giudicata senza appello una deviazione e un errore colpevoli e peccaminosi. Il giudizio storico che Dante dà di Maometto, bollato essenzialmente come scismatico, non può non essere inteso come una condanna globale della sua dottrina religiosa e della sua azione, non può sottintendere alcuna disponibilità ad una integrazione. Lo scisma infatti deriva precisamente dalla dottrina da lui predicata.
Altro è il suo atteggiamento nei confronti del pensiero filosofico arabo, ma è facile spiegarsi certe adesioni, tenendo presente che quel pensiero dovesse apparirgli come nient’altro che una versione del pensiero greco, platonico e aristotelico.
Tutto ciò non esclude che Dante potesse accogliere singoli elementi di quella cultura, quelli più facilmente riconducibili al fondamento cristiano. E ciò in sintonia con una regola basilare delle procedure mentali dello stesso Dante e di gran parte degli intellettuali cristiani del Medioevo: il metodo di elaborazione di pensiero e il sistema di idee che si è chiamato sincretismo. Per rimanere nel settore del pensiero escatologico, osserviamo subito - ma il fatto è ben noto - che le convinzioni generali musulmane relative a questo campo hanno forti coincidenze con quelle cristiane. E si capisce, perché il libro base per ogni successiva elaborazione in tal senso è l’Apocalisse. Del resto, anche su piano generale, molte delle dottrine musulmane provengono da quelle cristiane. Eventuali aperture da parte di Dante a determinate suggestioni certo non incrinano il compatto sistema religioso, filosofico e dottrinale della Commedia e, tanto meno, possono mettere in discussione non diciamo l’originalità inventiva, che è in sé falso problema, ma l’autonomia creativa e poetica. Si tratterà invece di individuare specifici rapporti interdiscorsivi o intertestuali nei settori in cui ha fondamento presumere un’interdipendenza.
L’esame può prendere in considerazione il testo più ampio e completo dell’escatologismo islamico medievale, il Libro della Scala, un testo che poteva conoscere o direttamente, in traduzione latina e francese, o attraverso una possibile mediazione di Brunetto Latini.
Credo però che il problema finora sia stato posto in termini poco rigorosi, soprattutto perché il confronto non è stato anzitutto istituito sul piano della struttura, mentre si è guardato ad aspetti singoli delle due opere, anche se in sé di sicura rilevanza. Partiamo dall’impostazione generale. C’è indubbiamente una analogia generale di schema narrativo. Nell’una e nell’altra opera abbiamo un soggetto che è protagonista di una visione oltremondana e che la narra in prima persona. La visione si attua in forma di viaggio e il soggetto conserva la pienezza del proprio essere, è cioè in corpo e anima. A questo soggetto l’esperienza d’eccezione è proposta da un ente appartenente al mondo ultraterreno. E questo stesso sarà la sua guida per gran parte dell’esperienza. A un certo momento apparirà anche un’altra figura di guida. Alla fine il protagonista prima dovrà sottoporsi ad una sorta di esame e riceverà un’investitura relativa a un suo ruolo terreno. Poi sarà da solo al cospetto di Dio.
Voglio aggiungere altre somiglianze particolari interne a questo schema. Seguo l’ordine di successione della loro distribuzione nel testo arabo, indicandone il paragrafo: 1) spostamento del soggetto del viaggio in groppa ad un animale (§§ 5-6); 2) tentativo di opposizione al viaggio da parte di tre enti allegorici (§§ 7-8); 3) arrivo in un luogo chiuso, ove il soggetto incontra defunti che ebbero in vita ruoli di rilievo (§§ 8-10); 4) annunci al viaggiatore e predizioni sul destino del popolo di Maometto (§§ 33, 36, 46); 5) saluto rivolto da parte di una guida al soggetto del viaggio con sottolineatura dell’altezza cui Dio ha voluto elevarlo (§ 122); 6) esame ed investitura profetica del prescelto nell’alto del cielo (§§ 123-5); 7) collocazione di satana in una città fortificata (§ 150); 8) mutilazioni e ferite di coloro che hanno creato discordia con la parola (§ 199); 9) pietà per le pene dei dannati (§§ 199, 201); 10) ordine da parte della guida di riferire ai viventi tutto quello che ha visto (§§ 202-3).
È questo una schema costruito al massimo di astrazione. Ma dal momento in cui si procede a un confronto più ravvicinato le analogie via via si dissolvono e diventano somiglianze generiche e particolari. Si rilevano subito le differenze anche di struttura. Una differenza addirittura macroscopica è sul piano del percorso del soggetto del viaggio. Quello del Libro della scala infatti prima ascende quasi immediatamente al paradiso e successivamente visita l’inferno. Mentre, qualunque ne sia la ragione, non c’è il purgatorio. E poi sia il paradiso che l’inferno sono divisi in modo diverso (§ 181). Rispetto a queste differenze una piccola dissomiglianza può sembrare il fatto che la vicenda del personaggio cominci e si concluda, piuttosto banalmente, nella sua abitazione. Il racconto del dopo-viaggio si spinge sino a dire dell’accettazione di Maometto come profeta da parte del suo popolo (§§ 204 sgg.). Ma le differenze più grandi si riscontrano nel campo dell’organizzazione complessiva della materia. Nell’opera araba manca il mondo terreno con i suoi uomini e le sue cose, manca la storia, mancano i personaggi dotati di una loro realtà storica e biografica. Si incontrano solo i patriarchi a partire da Adamo e alcuni artisti. E mancano dei veri dialoghi tra il viaggiatore e i trapassati. Manca poi l’impianto apocalittico-profetico che distingue il poema di Dante, cioè il convergere e coincidere di itinerario ascetico-penitenziale e conoscitivo-contemplativo del soggetto del viaggio, assieme alle specificità biografico-storiche della sua chiamata profetica: i dubbi sulla legittimità dell’esperienza proposta, il destino di sofferenza e persecuzione terrena. Manca la dialettica Dante autore-Dante personaggio. Manca il grande impianto culturale della Commedia, che comprende cultura classica e cultura cristiana. E mancano la tensione morale e l’impegno politico-religioso.
Tralascio del tutto infine di soffermarmi sull’abissale differenza tra le due opere per quel che riguarda le idee sulle condizioni di esistenza nel paradiso e sulle realtà del sovrumano e del divino. L’autore musulmano immagina le prime in forma del tutto materiale e fisica e definisce le seconde sempre in termini quantitativi, affidando alle misure iperboliche la funzione di significarne lo scarto rispetto all’esperienza dell’uomo nel mondo.
Diversità e non raffrontabilità emergono anche sul piano di singoli aspetti e di singole rappresentazioni, anche quelle che sembrano più significative, come è della serie sopra fissata. Decisivo a questo punto diventa il confronto intertestuale. E non prospetto pregiudizialmente valutazioni di ordine estetico; mi limito al confronto sul piano dell’invenzione e dell’organizzazione dei motivi. Mi fermerò sui raffronti più significativi.
Per quanto riguarda il primo punto della serie che ho fissato, si potrebbe pensare ad una analogia con la discesa di Dante e Virgilio verso Malebolge portati da Gerione. Si tratta infatti di un animale di forma e aspetto e genere del tutto diversi dalle specie conosciute agli uomini. E tuttavia il lettore non riesce a farsene un’idea concreta. E poi nel testo arabo l’animale non simbolizza affatto un peccato, anzi è descritto come un essere superiore. Tanto che verrebbe da pensare anche al grifone del paradiso terrestre. Questo stesso essere però si sobbarca a portare in groppa Maometto. La velocità della sua corsa è misurata in termini quantitativi, e tuttavia sono quantità generiche che costituiscono solo rappresentazioni astratte.
L’opposizione al viaggio esercitata dai tre enti allegorici naturalmente può far pensare alle tre fiere del I canto dell’Inferno. I primi due però sono «voci», il terzo è una donna bellissima. In verità per il poema dantesco si possono proporre analogie ben più pertinenti, non mancando proprio nei testi biblici rappresentazioni riguardanti esattamente tre fiere con valore allegorico. Ma la differenza veramente sostanziale sul piano dell’impianto narrativo sta nel fatto che il testo arabo sveli direttamente e immediatamente il significato allegorico degli enti. Che è proprio l’opposto del procedimento dantesco.
Il congedo di Gabriele da Maometto prima che egli ascenda alla visione di Dio e il suo rimanere assieme alla guida che si è aggiunta successivamente, Ridohan, può ricordare luoghi danteschi somiglianti, come la separazione da Virgilio e Stazio e poi quella da Beatrice. Ma nel Libro…non si tratta di separazione definitiva, perché i tre si ritrovano poco dopo (§ 130). Pere non dire della ben diversa intensità emotiva e culturale che tali situazioni hanno in Dante.
L’esame è condotto direttamente da Dio e verte sulla conoscenza di Maometto di determinate realtà celesti. Dio stesso gliele rivela gradualmente e in questa rivelazione esplicita consiste l’esperienza del divino da parte del profeta. Alla fine Dio gli impartisce l’ordine di dire agli uomini fedelmente quel che ha visto. Le diversità rispetto al canto XXXIII del Paradiso sono evidenti. Somiglianza si dà solo nello schema, e solo se questo è definito in termini di massima astrazione.
Le somiglianze relative agli ultimi tre punti sono decisamente generiche, perché fondate su situazioni, condizioni e motivi quasi ovvi in un’opera che narri di una visione oltremondana. Così è dell’immaginare l’amputazione delle labbra per coloro che con le loro parole provocano discordia tra individui o tra popoli oppure la pietà destata nel viaggiatore dallo spettacolo atroce delle pene oppure l’ordine di riferire quel che è stato mostrato per l’educazione e l’edificazione degli uomini. Per quanto riguarda il secondo punto in particolare, il tema della pietà, il narratore non fa che riferire di uno stato d’animo del viaggiatore, senza porre e porsi, come fa Dante, il problema della sua contraddittorietà e incompatibilità nel mondo dell’assoluta giustizia.
Si può ammettere dunque che esista qualche fondata possibilità che Dante fosse a conoscenza di qualche particolare rappresentazione dell’opera araba. Ma è evidente che egli opera sempre profonde rielaborazioni generali e particolari.
E si può ora venire al punto fondamentale e decisivo della problematica relativa al rapporto della Commedia con Libro della scala. Che è quello dell’autonomia creativa e poetica. La concretezza e la definitezza dell’immagine, che danno individuazione anche all’incorporeo sono le caratteristiche dominanti della poesia di Dante. Indefinitezza, approssimazione e disordine caratterizzano invece il testo arabo. Prevale infatti l’abbandono al fantasioso e all’onirico, e possiamo riconoscere l’effetto modellante, a livello sia strutturale che stilistico, dell’Apocalisse di Giovanni. Il testo dantesco invece, in cui pure non mancano il fantasioso e l’onirico, è disciplinato e razionalizzato sul modello formale dei classici e soprattutto del maestro riconosciuto, Virgilio.
D’altra parte è evidente che non è possibile paragone alcuno sul piano della densità semantica. Sempre più e meglio la critica va accertando nel testo dantesco la straordinaria profondità e pregnanza e complessità di significati e di livelli di significato nella direzione dell’allegorico, del simbolico, dell’allusivo, del ****forico. Un sistema formale atto a strutturare il grandioso sistema culturale che costituisce il poema. Qualunque somiglianza pertanto è solo relativa alla materia grezza e non implica dipendenza di natura artistica. Come, si può aggiungere in base a tutto il discorso fin qui condotto, non implica dipendenza culturale. La Divina commedia appartiene a un pianeta troppo diverso e lontano perché una qualsiasi derivazione o somiglianza non debba essere sostanzialmente irrilevante.[/LEFT


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