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martedì, giugno 03, 2008

L’insegnante di italiano all’estero


L’insegnante di italiano all’estero: Percorsi di formazione, Roma, Bonacci


FATTORI COGNITIVI, PSICOLOGICI E SOCIO-CULTURALI CHE INTERVENGONO NELLA
DIDATTICA DELL'ITALIANO AD ALLIEVI STRANIERI ADULTI

Coordinate metodologiche di riferimento


Chiara Zamborlin


INDICE

1. Una definizione del concetto di adulto: l’andragogia

1. Una definizione del concetto di adulto: l’andragogia


In glottodidattica lo status d’adulto è definito secondo tre parametri interdipendenti, ovvero dal punto di vista biologico, psicologico e socio-culturale. In termini generali possiamo quindi ritenere adulta una persona che ha superato la pubertà, che è capace di compiere scelte autonome e che possiede, o è in grado di esercitare, un ruolo professionale (impiegato, operaio, ecc.) oppure un’occupazione (studente universitario, casalinga, ecc.). Un tratto aggiuntivo che ci aiuta a definire meglio questa figura d’apprendente, è rappresentato dal fatto che ogni adulto è provvisto di un patrimonio di conoscenze enciclopediche che è molto importante riuscire a valorizzare ai fini didattici (si pensi in particolare all’ambito dello studio microlinguistico). La descrizione fin qui tracciata, per quanto vaga, ci consente già di mettere a fuoco il problema e di comprendere che l’insegnamento agli adulti richiede una programmazione basata su postulati psico-pedagogici diversi da quelli che regolano la didattica agli adolescenti o ai bambini.

Le condizioni in cui all’estero si realizza l’insegnamento della lingua italiana ad adulti sono molto diversificate. Qui possiamo solo accennare che a livello istituzionale corsi di lingua e letteratura italiana sono spesso offerti in università, in accademie di belle arti e in conservatori di molti paesi d’Europa, dell’America Latina, in Nord America e in Australia. A partire dagli anni ottanta lo studio dell’italiano ha guadagnato anche un rapido incremento in Asia (soprattutto Giappone, Corea e Cina), dove l’utenza è esclusivamente adulta. Al di fuori delle istituzioni accademiche, l’italiano nel mondo è appreso da adulti negli Istituti Italiani di Cultura, in enti finanziati da organismi pubblici o privati e in istituti quali scuole di lingue o associazioni culturali di vario genere. Indipendentemente dalle strutture e dal contesto geografico in cui ci si trovi ad operare, ai fini di un’adeguata progettazione didattica è tuttavia importante tenere presente che all’estero gli adulti si accostano allo studio dell’italiano motivati da interessi e bisogni spesso molto differenziati. L’italiano può ad esempio essere appreso per il semplice piacere di conoscere una nuova lingua e una nuova cultura, per interessi legati al campo di studio, per ragioni affettive (es. l’italiano come lingua etnica), per esigenze professionali, ecc.

Per quanto non sia possibile fornire indicazioni operative applicabili ad ogni situazione, nell’ambito di cui trattiamo possiamo individuare per lo meno un punto di riferimento stabile nell’approccio didattico da seguire. Ci riferiamo all’andragogia, termine usato dallo psicologo Malcolm Knowles per designare la teoria dell’apprendimento negli adulti, che si differenzia dalla pedagogia, ovvero l’arte di educare i fanciulli.[1] Per una didattica linguistica condotta secondo principi umanistico-affettivi appare adeguato mantenere un distinguo tra queste due scienze dell’educazione. Pertanto, in classi d’adulti, un accorgimento da seguire sarà quello di evitare un approccio “pedagogico” nel senso etimologico, vale a dire basato su attività che di norma funzionano nell’insegnamento precoce ma che possono dimostrarsi inadatte, o essere addirittura poco gradite, ad allievi che non sono più bambini o ragazzi molto giovani. È inoltre importante ridefinire in senso andragogico anche il rapporto tra allievo e docente, dal momento che insegnare agli adulti significa interagire con individui per i quali l’apprendimento di una lingua straniera può costituire un impegno abbastanza faticoso e che, soprattutto, non sono sempre disposti a mettere in discussione, oltre un certo limite, la propria visione del mondo. È quindi indispensabile che il rapporto tra insegnante e apprendente assuma la configurazione e la dinamica di una relazione tra pari. Quest’ultima nota di cautela, come discuteremo, riguarda non solo il modo di affrontare gli argomenti di carattere morfosintattico ma soprattutto quelli di natura socio-culturale.



[1] “Andragogia” deriva dal greco anèr-andròs (uomo) + ágein (condurre). La radice etimologica è la stessa per “pedagogia” (da pais-paidòs = bambino). Per un approfondimento sul tema si rimanda in particolare a Demetrio (1990; 1995) e a Knowles (1997).



2. Variabili associate alla didattica dell’italiano come LS agli adulti

I fattori coinvolti nell’apprendimento di una lingua straniera sono molteplici. È dunque impossibile pensare di offrirne una tassonomia esauriente. Di seguito discutiamo in prospettiva andragogica alcune variabili che intervengono nella didattica dell’italiano come LS, classificandole su tre piani correlati: cognitivo, psicologico e socio-culturale. Naturalmente non dobbiamo dimenticare che la situazione in cui ogni insegnante si troverà ad operare presenterà sempre caratteristiche d’unicità, di conseguenza le riflessioni che proponiamo non costituiscono altro che un percorso orientativo strutturato in una griglia di punti di riferimento molto generali.


2.1. Fattori cognitivi


Da un punto di vista cognitivo, l’insegnamento di una lingua straniera a adulti presuppone che si tengano presente alcune considerazioni di carattere neurologico. A partire da Lennemberg (1967) molte ricerche in questo campo hanno permesso di comprendere che con il raggiungimento della pubertà il cervello umano completa la lateralizzazione, assegnando certe funzioni cognitive all’uno o all’altro dei due emisferi. Dato che le operazioni linguistiche sembrano essere controllate in gran parte dall’emisfero sinistro – per quanto oggi sappiamo che anche l’emisfero destro interviene in modo rilevante nelle funzioni del linguaggio[1]– fino a tempi non lontani si riteneva che il superamento della pubertà segnasse un punto di non ritorno per la possibilità di apprendere con successo le LS. Il che significava postulare l’esistenza di un periodo critico anche per l’acquisizione di una lingua che non fosse quella materna.[2] La questione, in realtà, appare molto più complessa di quanto si sospettasse e allo stato attuale sembra più adeguato parlare non di periodo critico ma di periodo sensibile. La distinzione è importante dal momento che la prima ipotesi interpreta le potenzialità di successo nell’apprendimento di una LS come limitate ad un solo periodo della vita, mentre la seconda considera l’infanzia come il periodo in cui l’apprendimento è semplicemente più agevolato (Ellis, 1994: 493).

Non è in ogni caso indispensabile possedere nozioni di neurolinguistica per capire che gli adulti, tanto in ambienti di LS quanto di L2, imparano facendo più fatica dei bambini. Rispetto ai giovani in età prepuberale gli adulti sono indubbiamente avvantaggiati in partenza, da un punto di vista quantitativo, e specialmente nell’apprendimento delle regole grammaticali, ma in un secondo tempo sono sempre superati dai bambini o dai ragazzi (a patto che ricevano un’adeguata esposizione alla lingua d’arrivo, cfr. Scovel, 1999: 284). Solo i bambini inoltre sono normalmente in grado di acquisire la pronuncia di una seconda lingua ai livelli dei madrelingua, e questo può essere spiegato con argomentazioni di carattere psicomotorio che sosterrebbero l’ipotesi di un periodo critico ma relazionato, più che alla lateralizzazione, alla plasticità del sistema neuromuscolare infantile che consente di usare con agilità i muscoli dell’apparato articolatorio (Brown, 1994: 53). Le potenzialità d’apprendimento di morfologia e sintassi a livelli nativi, o quasi nativi, sembrano infine diminuire sensibilmente dopo i quindici anni, mentre si ritiene che il lessico possa essere agevolmente appreso a qualsiasi età.[3] Bisogna però tener presente che nelle persone anziane si assiste spesso ad una diminuzione della memoria dichiarativa (la capacità di ricordare nomi, date, fatti, ecc.), anche se la perdita può essere relativamente minima in condizioni di buona salute (Scovel, 1999: 248).

Gli adulti, nondimeno, possono fruire di preziose risorse, come la capacità d’astrazione e di sistematizzazione delle conoscenze – di cui i bambini non sono ancora in condizioni di avvalersi – che consentono all’apprendente di oltrepassare la dimensione dell’esperienza concreta e della percezione diretta (Brown, 1994: 57). A questo riguardo già alcuni decenni fa Ausubel (1964) faceva notare che nell’apprendimento linguistico le spiegazioni grammaticali esplicite e i ragionamenti deduttivi sono indispensabili agli adulti, mentre in gran parte dei casi si dimostrerebbero inutili o addirittura svantaggiose nell’insegnamento precoce. Varie esperienze che abbiamo raccolto ascoltando insegnanti d’italiano che operano dall’Asia al continente americano, dal nord Europa al nord Africa, confermano quest’osservazione. Infatti, indipendentemente dalla distanza effettiva tra italiano e L1, e dalle diverse abitudini d’apprendimento, gli adulti – e già in larga misura gli adolescenti – sollecitano costantemente riflessioni esplicite sui meccanismi di funzionamento della lingua straniera. Disattendere queste esigenze metalinguistiche sarebbe certamente sbagliato dal momento che derivano da un bisogno di contare su regole generali di riferimento, e tale bisogno costituisce un attributo peculiare della mente adulta (cfr. Brugé, in questo volume).

Un altro elemento che contraddistingue la didattica andragogica da quella precoce, riguarda il fatto che gli adulti mostrano di possedere degli stili d’apprendimento abbastanza definiti. Con il termine “stile” ci riferiamo qui ad una tendenza cognitiva, quindi ad un fattore interno, che riguarda il modo in cui si apprende e che varia da individuo a individuo. Ci sono ad esempio persone portate all’uso della memoria visiva, mentre altre sono più inclini a riflettere e ad analizzare. Alcune persone mostrano un livello di tolleranza dell’ambiguità molto elevato (che consente loro di adattarsi a contesti comunicativi opachi e di sostenere una conversazione in LS senza pretendere di capire tutto), quando altre non riescono affatto a tollerarla. Gli stili d’apprendimento identificati e studiati dagli psicologi della cognizione sono molteplici e fornirne un inventario esulerebbe dall’ambito di questo lavoro. Per quanto riguarda lo studio delle LS, ricordiamo solo che sono spesso portati ad esempio due paradigmi: quello di “indipendenza” e quello di “dipendenza dal campo”. Il primo concetto definisce l’abilità di percepire particolari rilevanti isolandoli dall’insieme (ovvero dal “campo”, che nel nostro caso può essere tanto un testo quanto o una situazione comunicativa). Il secondo indica invece la tendenza a percepire e ad assimilare le informazioni contestualmente, senza elaborarle in modo analitico e sequenziale. È stato rilevato che nella cultura occidentale gli uomini tendono ad essere più “indipendenti dal campo” rispetto alle donne ma che nelle società agrarie o autoritarie prevalgono in media gli individui del secondo tipo.[4] Anche se crediamo che queste generalizzazioni non debbano essere interpretate come degli schemi preconfezionati entro cui inquadrare i nostri allievi, dobbiamo comunque considerare che le differenze negli stili d’apprendimento sono un fatto accertato, che non ne esiste uno preferibile ad un altro e che ogni stile dovrebbe essere valorizzato o, quantomeno, assecondato.


2.2. Fattori psicologici


Alcuni allievi apprendono rapidamente mentre altri, in varia misura, possono incontrare delle difficoltà. La predisposizione naturale all’acquisizione delle LS è un fattore interno all’individuo, probabilmente immutabile, quindi innato e quasi certamente indipendente dall’intelligenza (cfr. Carroll, 1981; Skehan 1990). Tra i fattori variabili che caratterizzano la personalità di un adulto, e che possono determinare il successo o l’insuccesso nell’apprendimento, sono invece solitamente elencati tratti caratteriali quali l’introversione, l’estroversione e la predisposizione all’ansia. Si tratta di fattori che in una classe di LS dovrebbero essere considerati con attenzione, al fine di gestire nel miglior modo possibile l’interazione del gruppo e calibrare la distribuzione delle attività. In tal senso sarà quindi consigliabile di incoraggiare tutti gli allievi a prendere la parola o a contribuire con le proprie risposte alle risoluzioni dei vari task, facendo però attenzione a non forzare chi appare esitante o chi sembra non accettare di buon grado la possibilità di sbagliare di fronte agli altri. A differenza dei bambini, infatti, gli adulti possono essere molto sensibili alla propria immagine e al rischio di perdere la faccia, cui si trovano particolarmente esposti nei giochi di ruolo o nelle drammatizzazioni. Nelle attività di coppia o di gruppo sarà inoltre opportuno invitare chi appare fiducioso, a lavorare con chi si mostra insicuro e, richiamandoci ai principi del cooperative learning, sarà importante far presente che tutti, sebbene in diversa proporzione, possono essere utili agli altri. Se non altro per il patrimonio di conoscenze enciclopediche cui gli adulti, all’occorrenza, sono sempre in grado di attingere.

Un’altra variabile psicologica degna di menzione è rappresentata dalle credenze riguardanti il modo di imparare. Gli adulti, diversamente dai bambini, hanno una spiccata consapevolezza glottomatetica che può manifestarsi in una vasta gamma di varianti e spaziare dalle convinzioni concernenti il metodo, a quelle sullo stile didattico dell’insegnante, dal feedback che si riceve nella correzione degli errori, alle abitudini d’apprendimento che ognuno porta con sé. Le differenze di punti di vista riguardo a come imparare e a cosa imparare riflettono naturalmente le esperienze di studio passate e sono intimamente congiunte agli stili cognitivi e alla personalità d’ogni apprendente. Va anche osservato che il retroterra culturale pedagogico da cui gli allievi provengono può inibire o incoraggiare determinati atteggiamenti e convinzioni. Riteniamo altresì importante far notare che per quanto tali punti di vista possano essere in contrasto con la filosofia glottodidattica di chi insegna, il tentativo d’eradicarli o di modificarli all’improvviso potrebbe dimostrarsi controproducente. Confrontiamo, a titolo d’esempio, due diversi territori operativi. Negli USA, dove fino a pochi anni fa il Natural Approach aveva un consenso molto ampio e dove gli studenti sono, per tradizione, abituati a metodi come la TPR, il Silent Way, o a tecniche di didattica ludica, gli approcci diretti non trovano comunemente resistenza tra gli adulti. Tuttavia, con allievi provenienti da un sistema educativo che privilegia uno studio normativo e strutturalista (com’è il caso di molti paesi asiatici), non sarà evidentemente indicato adottare – almeno fin dal primo giorno – un percorso all’americana. Sarà casomai più prudente fare riferimento a coordinate teoriche generalmente applicabili, conducendo gli allievi a comprendere che nell’apprendimento di una seconda lingua il cervello funziona in forma bimodale,[5] e invitandoli a studiare sì la grammatica ma attraverso una riflessione sulla lingua a spirale (cfr. Balboni, 1998: 104), condotta sempre dall’implicito all’esplicito (non viceversa) e supportata da attività sullo sviluppo delle abilità che quella tipologia d’allievo sente la necessità di potenziare.

Tra le variabili psicologiche di questa griglia includiamo la motivazione che, com’è noto, rappresenta una condizione vincolante per l’apprendimento. Gli studi sul tema sono numerosissimi e numerose sono state le definizioni proposte per cercare di spiegare i meccanismi che stimolano e sostengono una persona nello studio di un’altra lingua. Tra le etichette classiche ricordiamo quelle d’integrativa e strumentale, che si riferiscono alla natura della motivazione. Motivazione integrativa potrebbe, ad esempio, essere quella di chi nel proprio paese studia l’italiano perché intenzionato a trasferirsi in Italia (anche temporaneamente) e ad integrarsi nella sua società. La motivazione strumentale è originata invece dalla necessità di usare l’italiano per scopi “utilitaristici”: pensiamo, ad esempio, ai tanti cantanti lirici stranieri ai quali una corretta dizione italiana serve per esigenze di lavoro. Il binomio motivazione intrinseca-estrinseca descrive ulteriori meccanismi. Nel primo caso la motivazione appare generata da un desiderio interno che si rileva tra chi studia la nostra lingua per ragioni culturali (ad esempio turisti appassionati delle bellezze artistiche dell’Italia) o per cause affettive (come nel caso dei discendenti d’italiani, soprattutto in America Latina). La motivazione estrinseca, al contrario, è quella indotta da appagamenti materiali e può essere riscontrata, per esempio, nei dipendenti di un’azienda che apprendono l’italiano in vista di un trasferimento di lavoro, o tra studenti universitari che scelgono un corso di letteratura italiana come requisito di seconda o terza lingua straniera per ottenere un credito. Un’altra opposizione è infine quella di motivazione causativa e risultativa. Le due categorie antitetiche interpretano la motivazione rispettivamente come un fattore psicologico che esercita un effetto sull’apprendimento, e come una variabile influenzata dal livello di successo. Ancora una volta precisiamo che queste classificazioni sono indicative e non sono mai a tenuta stagna. È infatti chiaro che le varie categorie possono fondersi o intersecarsi tra loro. In ogni caso è importante tener presente che la motivazione in un adulto costituisce un fattore complesso, mutabile nel tempo e influenzabile, in senso positivo o negativo, da cause sia interne che esterne.

Un ultimo elemento che ci sembra opportuno menzionare riguarda il fattore psicotipologico. La nozione di “psicotipologia” è stata proposta da Kellerman (1977) [6] per indicare il modo in cui gli apprendenti percepiscono la distanza tra la L1 e la lingua d’arrivo. Da un punto di vista strettamente linguistico, la distanza tra le lingue è comparativamente descritta assegnando ogni lingua al tipo che le corrisponde: ad esempio, a livello morfologico, una lingua può appartenere al tipo agglutinante (es. il turco), isolante (es. il vietnamita), flessivo (es. le lingue indoeuropee), ecc.[7] Ai fini glottodidattici tuttavia, è interessante non solo stabilire la distanza effettiva tra italiano e L1 ma anche capire come gli allievi avvertano psicologicamente tale distanza. In una lunga serie di ricerche, Kellerman ha fornito prove abbastanza convincenti che gli apprendenti adulti di una LS hanno una percezione innata relativa al funzionamento del proprio sistema linguistico, la quale consente loro di riconoscere determinate strutture della lingua materna come potenzialmente trasferibili nella lingua d’arrivo e altre come non trasferibili. Sarebbe dunque questa capacità percettiva innata, e non il grado di vicinanza-lontananza effettivo tra le lingue, a favorire o ad inibire i transfer.[8] Tale percezione inoltre non è fissa e immutabile ma rielaborabile man mano che l’allievo acquista un maggior livello di competenza nella lingua target. Attraverso scambi d’idee con docenti che insegnano italiano in paesi di lingua romanza, abbiamo avuto un’interessante conferma di questo mutamento di percezione. In quei casi, ad esempio, gli allievi percepiscono inizialmente l’italiano come una lingua “facile” perché molto vicina alla lingua materna ma, progredendo nello studio, modificano regolarmente la loro impressione.

A questo punto ci sembra pertinente anche un collegamento tra fattore tipologico, psicotipologico e materiali didattici. Molti insegnanti all’estero si rendono presto conto che un qualsiasi testo d’italiano per stranieri non è utilizzabile allo stesso modo in ogni parte del mondo. La situazione può essere ulteriormente complicata dal fatto che in molti paesi è ancora abbastanza difficile poter contare su testi d’italiano (realizzati per soddisfare i bisogni di quel particolare tipo d’apprendenti) che si possano considerare qualitativamente validi. In tali circostanze l’insegnante si troverà a svolgere un attento lavoro di didattizzazione del materiale disponibile, oppure dovrà dedicarsi alla produzione di materiale che si adatti, innanzi tutto, alla distanza effettiva tra italiano e L1. Per graduare gli argomenti grammaticali sarebbe inoltre importante riuscire a sfruttare quel “senso della lingua” che gli allievi posseggono e le conoscenze su cui sono in grado di fare affidamento,[9] cercando di individuare quei punti che consentono di trasferire nella lingua d’arrivo strutture della L1, oppure dando sempre una priorità a quegli elementi che sono percepiti senza ambiguità come psicologicamente meno distanti.


2.3. Fattori socio-culturali


Nelle sezioni precedenti ci siamo soffermati su aspetti di carattere neuro e psico-linguistico, portando l’attenzione solo su una faccia della competenza comunicativa:[10] la competenza linguistica. È tuttavia chiaro che, soprattutto in ambiti di LS in cui le occasioni d’esposizione alla lingua target possono essere molto limitate, sul piano comunicativo gli allievi adulti potranno arrivare ad appropriarsi del lessico e della grammatica della LS ma conserveranno i propri codici extralinguistici (gestualità, distanza interpersonale, ecc.) e, a livello concettuale, continueranno a ragionare secondo i parametri speculativi della loro cultura (cfr. Balboni, 1999a). Indipendentemente dal fatto che non sia stato ancora accertato se esista una connessione tra competenza linguistica e abilità cognitiva di acquisire i modelli e le costruzioni concettuali di una cultura straniera (cfr. Hinkel, 1999: 11), nella didattica agli adulti appare chiaro che il successo nell’apprendimento di una LS può essere compromesso nel caso in cui l’allievo percepisca la cultura da essa veicolata come una minaccia alla propria identità etnica.

A questo riguardo un utile parametro interpretativo può essere individuato nella nozione di dominanza sociale che recuperiamo dal modello dell’acculturazione di Schumann (1976).[11] Secondo questo quadro teorico l’apprendente straniero può percepire la comunità linguistica che utilizza la lingua d’arrivo come lingua materna, secondo tre differenti punti di vista: come dominante, subordinata, o non-dominante. Il grado relativo di questa percezione può riguardare vari aspetti di civilizzazione (politico, economico, morale, ecc.). Se, ad esempio, la comunità della lingua d’arrivo (gli italiani, nel nostro caso) è avvertita come dominante - o come convinta di esserlo - le ripercussioni sull’apprendimento potranno essere negative. Anche la situazione opposta, per esempio nel caso in cui l’allievo appartenga ad una società fortemente etnocentrica, non sembra favorire un apprendimento linguistico e culturale equilibrato. D’accordo con Schumann (1976) possiamo quindi arguire che la dimensione ideale debba essere quella di non-dominanza, che si raggiunge solo quando la C1 (cultura materna) e la C2/S (cultura seconda o straniera) sono percepite come diverse ma su un piano di pari dignità. Questo livello di percezione rappresenta altresì la condizione indispensabile per poter aspirare all’acculturazione, vale a dire per imparare a funzionare in una cultura straniera senza mettere a repentaglio la propria identità e la propria visione del mondo (cfr. Byram & Morgan, 1994; Balboni 1996). Riteniamo che il modello dell’acculturazione rappresenti un punto di riferimento adeguato soprattutto al momento di condurre degli adulti stranieri a riflettere su aspetti della LS che vanno oltre la dimensione grammaticale. Ci riferiamo in particolare agli esiti di natura sociopragmatica, all’uso dei codici extralinguistici e alla vasta gamma d’argomenti che stimolano un dibattito in prospettiva transculturale[12] ai quali è importantissimo dedicare ampio spazio. Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che, se non adeguatamente gestite, le occasioni metaculturali possono indurre negli apprendenti una percezione della CS troppo inclinata verso uno dei poli estremi dell’asse della dominanza (Schumann, 1976). Al fine di ridurre al minimo tali rischi, proponiamo di seguito alcune riflessioni che, come sempre, dovranno essere poi rapportate alla situazione individuale di chi legge.[13] A questo riguardo dobbiamo mettere subito in chiaro che se gli adulti apprezzano e interpretano come feedback il fatto che l’insegnante corregga[14] i loro errori fonologici, grammaticali, sociolinguistici o pragmalinguistici, di norma è raro che accolgano di buon grado anche la correzione di “errori” sociopragmatici. Cerchiamo di discutere quest’importante punto definendo con esempi le varie categorie d’errore.

Le nozioni d’errore fonologico e grammaticale sono generalmente chiare, dal momento che si riferiscono rispettivamente ad un esito fonologico poco intelligibile e ad un’ipotesi errata sul piano morfosintattico. Un errore sociolinguistico può riguardare la scelta di un registro non appropriato al contesto (l’esempio classico è l’uso del “Lei” al posto del “tu” o viceversa), mentre un errore pragmalinguistico riguarda il trasferimento dalla L1 di lessico o di strutture che nella lingua d’arrivo non riescono a svolgere la stessa funzione comunicativa. Un esempio può essere quello di un allievo giapponese il quale, ogni volta che intendeva esprimere meraviglia, soleva dire “bugia!”, traducendo dalla sua lingua il termine “uso”, che significa sì “bugia” ma che in L1 svolge anche la funzione di un segnale discorsivo corrispondente all’italiano “Incredibile!”, “Davvero?”. [ESPANSIONE] [1] L’“errore”[15] sociopragmatico si differenzia da quello pragmalinguistico perché deriva da valutazioni di natura socio-culturale e, in termini generali, si riferisce al trasferimento in una LS/L2 di modalità che traggono origine da un diverso modo di interpretare i principi dell’etichetta linguistica.[16] Ad esempio, tra i nord americani d’origine anglosassone è molto diffuso l’uso di complimenti come apertori di discorso, che hanno la funzione di iniziare uno scambio di battute dal tono piacevole ma che possono essere interpretati come caricati o non sinceri da persone di un’altra etnia. Molti esiti dispreferiti di natura sociopragmatica sono normalmente generati anche dal fatto che i parametri che regolano l’uso della cortesia variano da cultura a cultura. Gli israeliani, per esempio, tendono ad essere molto diretti nelle loro richieste e a mostrare una certa intolleranza verso i giri di parole. Un altro esempio può riguardare la percezione del grado di severità di un’offesa e il conseguente obbligo di scusarsi, che sembra essere molto alto tra i giapponesi, alto tra gli anglosassoni ma, rispetto a questi ultimi, relativamente basso tra i tailandesi.[17] Sia a livello produttivo che ricettivo, molti “errori” sociopragmatici, riguardano soprattutto l’uso dell’umorismo o dell’ironia che vengono codificati in modo variabilissimo a seconda della cultura.

Gli adulti, quando parlano una lingua straniera, sono generalmente consapevoli di poter commettere errori nell’effettuare una determinata scelta morfosintattica, lessicale, o sociolinguistica, ma si ritengono anche persone capaci di compiere decisioni di carattere sociopragmatico che sono appunto scelte socio-culturali ancor prima che linguistiche (Thomas, 1983: 104). Per esempio, in un role play potremmo classificare come “errore” sociopragmatico l’enunciato di un allievo (adulto), che entra in un negozio per chiedere dove si trova l’ufficio postale più vicino, senza ricorrere ad espressioni mitiganti (“Scusi …”, “Potrebbe dirmi …”, “Grazie …”, ecc.) quando, in quel particolare contesto, un italiano madrelingua le riterrebbe molto probabilmente d’obbligo. Naturalmente lo stesso tipo di “errore” può occorrere anche nella situazione opposta, in cui, ad esempio, il parlante dovesse fare un uso eccessivo della cortesia per richiedere un free good (es. un cliente che chiede al portiere dell’albergo di dargli la chiave della stanza, uno studente che chiede al compagno di prestargli la penna, ecc.). In casi simili non è insolito che la correzione sia recepita come l’intenzione di mettere in discussione le convinzioni socio-culturali dell’apprendente e di insegnargli il modo appropriato di comportarsi. Questo naturalmente non significa che esiti di tale natura non debbano essere esplicitamente messi in luce. Optare infatti per un metodo induttivo di scoperta della regola come si fa in grammatica, in questi casi sembra non funzionare (cfr. Zamborlin, i.c.s.), probabilmente perché le norme sociopragmatiche non sono mai governate da regole, ma da principi molto generali (cfr. Thomas, 1995). Appare piuttosto preferibile informare gli allievi, ricorrendo ad una riflessione esplicita (condotta possibilmente anche in L1), senza tuttavia dar loro l’impressione di volergli insegnare quello che “si deve” e quello che “non si deve” dire o fare (l’adulto dovrebbe essere lasciato libero di valutarlo da sé). Pertanto, il concetto che in questo caso ci sembra utile adottare è quello che nell’ambito degli studi di comunicazione interculturale è definito consciousness raising (cfr. Hinkel, 1999: 133), ovvero “innalzamento della presa di coscienza”.[18] [ESPANSIONE] [2]

Quando si discutono le variabili socio-culturali nella didattica dell’italiano come LS, non è lontanamente ipotizzabile pretendere di poter fornire una casistica esaustiva. Ogni situazione è caratterizzata da infiniti fattori (tra cui la distanza culturale, il grado d’estroversione-introversione della classe, la motivazione degli apprendenti, ma anche i loro problemi quotidiani, il tempo che hanno a disposizione, ecc.) che possono mutare completamente a seconda del gruppo. In linea di principio, riteniamo tuttavia che sotto quest’aspetto sia importante curare attentamente la dimensione ricettiva, mettendo gli allievi sempre al corrente delle norme sociopragmatiche, dell’uso dei codici extralinguistici e dei vari aspetti culturali che governano i principi dell’etichetta linguistica degli italiani. Sarà però opportuno lasciare all’apprendente libera scelta sul piano produttivo. Potrebbe infatti rivelarsi controproducente invitare uno straniero a gesticolare come un italiano, a produrre enunciati umoristici all’italiana o ad esprimere con disinvoltura la propria opinione su argomenti che in Italia vengono tranquillamente affrontati ma che possono turbare una persona di un’altra cultura. A meno che, naturalmente, non sia l’allievo stesso a richiedere un training specifico in questa direzione. Va comunque tenuto presente che, soprattutto a livello sociopragmatico ed extralinguistico, gli adulti possono scegliere volontariamente di non adeguarsi in modo totale alle modalità dei madrelingua, per una ragione psicologica del tutto individuale che spesso coincide con il semplice desiderio di mantenere la propria identità di straniero (cfr. Judd, 1999: 160; Rose & Kasper 2001: 3).



[1] Ad esempio nella comprensione degli elementi creativi della comunicazione linguistica, come le metafore, l’ironia, l’umorismo, ecc.

[2] La nozione di periodo critico è usata normalmente a proposito dell’apprendimento della L1 e si riferisce all’infanzia, “il periodo in cui è possibile sviluppare il linguaggio anche in seguito ad un danno ai centri linguistici” (Danesi, 1988: 113).

[3] Anche sotto quest’aspetto siamo tuttavia lontani dal poter fare affidamento su dati certi. Ellis (1994: 492) ad esempio puntualizza che, con l’assistenza di un intervento istruttivo adeguato, agli adulti non è affatto preclusa la possibilità di acquisire una pronuncia nativa in una LS/L2, e ricorda che, in una qualsiasi lingua target, molti adulti riescono a raggiungere livelli di competenza grammaticale d’estrema accuratezza.

[4] Come spiega Brown, (1994: 106) il motivo sembra strettamente connesso al tipo di sistema educativo in cui un individuo cresce. Nelle società capitalistiche, industrializzate e altamente competitive, l’educazione si fonda, ad esempio, su modelli che favoriscono l’indipendenza anche sotto l’aspetto cognitivo. Non dobbiamo inoltre dimenticare che nella cultura occidentale il mondo dell’educazione tende a valutare positivamente la capacità di analizzare e di spiegare dettagli, specialmente in ambito scientifico. Anche a livello affettivo le persone “indipendenti dal campo” tenderebbero all’autonomia e allo sviluppo della fiducia in se stessi, mentre gli individui “dipendenti” sarebbero più inclini a socializzare e a percepire i sentimenti degli altri. Nella seconda categoria sono fatti rientrare anche i bambini.

[5] Se riconosciamo la validità del principio di bimodalità l’osservazione vale, ovviamente, anche per i metodi diretti e soprattutto per il Natural Approach. Se, infatti, il metodo grammatico-traduttivo risulta in ogni caso innaturale, dal momento che avvantaggia l’uso esclusivo dell’emisfero cerebrale sinistro, nella didattica agli adulti il Natural Approach è inadeguato in senso opposto, poiché sbilanciato verso un uso quasi esclusivo dell’emisfero destro (cfr. Danesi, 1988).

[6] Gli studi sui transfer di Kellerman sono collegati a quelli sulla marcatezza differenziale di Eckman (1977).

[7] Attribuire una lingua a un determinato tipo è comunque un’operazione astratta che prende volutamente in considerazione la maggiore o minore presenza di alcuni tratti anziché di altri. In realtà in ogni lingua si riscontra molto spesso la compresenza di elementi assegnabili all’una o all’altra categoria tipologica (cfr. Beccaria, 1994: 306). Anche da questo punto di vista quindi, le classificazioni non sono mai ermetiche.

[8] Il termine “transfer” è abbastanza generico e include diversi tipi d’influenze esercitate sulla lingua d’arrivo dalla L1 o da altre lingue straniere che l’allievo può avere appreso in precedenza. Lo studio dei transfer include l’analisi degli errori (transfer negativi), delle facilitazioni (transfer positivi), e quello dell’elusione oppure dell’uso sovraesteso o indiscriminato di determinate strutture.

[9] Pensiamo anche all’eventualità, in contesti di L1 molto distanti, di fare appoggio su una lingua ponte, come ad esempio può essere una buona conoscenza del francese per molti studenti arabofoni, o dell’inglese a Hong Kong o in India.

[10] Per un modello essenziale di competenza comunicativa si veda ad esempio Freddi (1999).

[11] Il modello di Schumann (1976) è applicato a contesti di L2 ma, almeno parzialmente, può essere rilevante anche nell’insegnamento delle LS.

[12] Traduciamo con transculturale il termine inglese crosscultural che indica le modalità secondo cui la comunicazione varia in culture diverse. Lo studio di una cultura straniera in un contesto di LS è quindi molto spesso condotto in prospettiva transculturale. Con interculturale ci si riferisce invece propriamente all’interazione comunicativa tra membri appartenenti a differenti culture (cfr. anche Pallotti, 2000: 136).

[13] Per un approfondimento sulla didattica dell’italiano LS in prospettiva transculturale rimandiamo al capitolo di Elisabetta Pavan.

[14] Sulla correzione degli errori si veda anche Mezzadri (2002).

[15] Sarebbe più appropriato classificarlo come esito dispreferito. Thomas (1983) ricorre infatti al termine “sociopragmatic failure”, dove “failure” non presenta la connotazione negativa che presenterebbero “error” o “mistake”.

[16] “Il termine etichetta linguistica si riferisce alla pratica peculiare d’ogni comunità linguistica di organizzare l’azione verbale in modo tale che sia considerata appropriata all’evento comunicativo in corso” (Kasper, 1997: 374). La traduzione è nostra.

[17] Studi di pragmatica inter e transculturale che trattano temi come quelli qui menzionati en passant sono numerosi, molti dei quali basati su dati particolarmente accurati, anche se si tratta per lo più di ricerche che hanno come punto di riferimento l’inglese L2/LS. Per una rassegna commentata si veda Bardovi-Harlig (2001).

[18] La traduzione è nostra.









3. Conclusioni: un modello di unità didattica a misura di adulto?


Parlare di didattica a bambini e ad adulti, come abbiamo visto, significa muoversi su due terreni epistemologici molto differenti. Se offrire alcune linee guida generali per un’UD a misura di bambino si può (si veda Luise, in questo volume), cercare di fornire in senso speculare indicazioni per un’UD a misura di adulto può apparire un’aspirazione contestabile. Se inoltre tutti i bambini del mondo, per la plasticità della loro mente e per i loro bisogni peculiari, finiscono per assomigliarsi e sono raggruppabili in un’unica categoria d’apprendente, quella di adulto è al contrario una categoria sfuggente definibile solo per differenziazione. Vale a dire, ogni allievo adulto, (o gruppo di allievi adulti) è classificabile in base al vissuto, alle motivazioni, agli stili di apprendimento e alle esigenze che lo caratterizzano. Possiamo pertanto affermare che non esiste un modello di UD di lingua italiana come LS per apprendenti adulti. Esistono modelli differenziati (es. UD di letteratura, di intercultura, di microlingua, ecc.), come appare negli esempi di questo volume a cui rimandiamo, i quali si conformano al modello di scansione dell’unità didattica classico (cfr. Balboni, 1994; Freddi, 1994) e ai principi dell’approccio umanistico affettivo. Se, quindi, gli apprendenti a cui si insegna non sono bambini, per la pianificazione delle attività e la preparazione dei materiali possiamo individuare dei punti di riferimento generali nelle variabili su cui si è riflettuto nei precedenti paragrafi. A livello d’approccio riteniamo altresì che quello umanistico-affettivo rappresenti un contenitore abbastanza capiente da riuscire a comprendere le esigenze di ciascuno, dal momento che si fonda su principi che, allo stato attuale, possiamo ritenere universalmente applicabili. In particolare il principio di insegnare ad una persona (cfr. Balboni, in questo volume), ci invita a non sottovalutare che un adulto è una persona con bisogni molto diversi da quelli di un bambino, con una mente che funziona in un modo differente da quella di un ragazzo, e che porta sempre con sé in classe una visione del mondo molto articolata. Se l’insegnante, orientandosi con i parametri discussi, sarà in grado di valutare attentamente questi aspetti, sarà anche capace di programmare e gestire l’attività didattica scegliendo, innanzi tutto, un metodo che si adatti ai bisogni del suo particolare gruppo, che – nei limiti del fattibile – sia in sintonia con il suo stile didattico, e che, in prospettiva andragogica, consenta di trasformare il corso d’italiano in un’esperienza formativa, in termini di Lifelong Learnng.

 


4. Riferimenti bibliografici

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dell’italiano come lingua straniera.



[ESPANSIONE] [1] Un altro esempio potrebbe essere quello di un allievo cinese che verso l’ora di pranzo[1] dovesse salutare un amico dicendo “Hai già mangiato?”. In questo caso si tratterebbe del trasferimento dal mandarino della formula “Wu fan chi le ma?”, che alla lettera corrisponde al significato semantico dell’enunciato italiano, ma che pragmaticamente è una semplice espressione formulaica di saluto. Il rischio è solo che un parlante italiano potrebbe interpretarla come una domanda strana o come un’implicatura conversazionale che sottintende un invito a pranzare insieme.


[ESPANSIONE] [2] A nostro parere tale concetto è anche adeguatamente applicabile alla dimensione extralinguistica. Immaginiamo di osservare un allievo coreano che, porgendoci un oggetto con la mano destra, con la sinistra sorregge il braccio teso all’altezza del polso o del gomito. Si tratterebbe di un gesto che, anticamente, pare svolgesse la funzione pratica di sollevare la manica dell’hanbok (il kimono coreano), ma che oggi fa parte integrante delle regole coreane della buon’educazione. Se eseguito in Italia può essere avvertito come strano, manieristico, e lo potremo far notare. Tuttavia, in casi come questo, in cui ci troviamo di fronte ad un esito cinesico che non dovrebbe disturbare più di tanto l’interazione con gli italiani, sarà anche il caso di non dare all’allievo la sensazione di volergli precludere la scelta di continuare a farlo. Per contrasto, ci sembra casomai più importante prestare maggiore attenzione ai gesti che in Italia hanno un’alta frequenza e che se non sono correttamente eseguiti possono creare attimi di disorientamento reciproco. Un esempio può essere la stretta di mano, che tra italiani è sicuramente un gesto di una certa priorità. In questo caso sarà opportuno fare notare agli allievi che ricorrono a prassi diverse, che in Italia, quando ci si presenta formalmente, non ci si dà soltanto la mano, bisogna stare anche attenti a stringerla bene, perché la “mano molle” non è gradita. Un avvertimento che di norma viene accolto favorevolmente, a patto che l’allievo sia messo al corrente che lo scopo dell’informazione non è di insegnargli come “deve” comportarsi, bensì quello di far sì che, giunto in Italia, non debba sentirsi a disagio di fronte ad una forma di comunicazione non verbale che può non aver mai avuto l’occasione di praticare.[2]

Una questione più delicata, e che deve comunque essere affrontata, riguarda gli argomenti tabù. I temi che in Italia, a seconda della situazione comunicativa, possono creare più o meno impaccio sono svariati, ma non è detto che gli stessi argomenti siano imbarazzanti in altre culture. Dal punto di vista della metodologia glottodidattica tuttavia, una nota di cautela vale in senso opposto e riguarda la necessità di prestare attenzione al fatto che molti temi tranquillamente toccati in Italia, all’estero possono mettere una persona in difficoltà. [3]




[1] Il contesto comunicativo può essere un ambiente di lavoro oppure a scuola, verso la fine della pausa pranzo.

[2] Com’è noto, ogni cultura organizza l’azione extralinguistica regolando in modo differente i parametri di gestualità, distanza, e sensorialità (il modo in cui siamo percepiti a livello visivo, uditivo e olfattivo, cfr. Balboni, 1999b). Ogni comunità linguistica dispone inoltre di un vasto e variegato repertorio gestuale. In classi di LS è importante informare gli allievi che gesti molto simili o addirittura uguali, nella C1 e nella CS possono essere portatori di significati completamente diversi. Soprattutto nei contesti di LS, è pertanto molto importante il ricorso a materiali autentici, soprattutto video, che vanno attentamente osservati, analizzati, discussi, cercando di trovare analogie e differenze in prospettiva transculturale, ma sempre in un’ottica comparativa che non attribuisca connotazioni di giudizio alle diverse modalità.

[3] Per una panoramica sugli argomenti tabù in prospettiva interculturale si rimanda a Balboni (1999b)







In questo capitolo rifletteremo su alcune variabili cognitive, psicologiche e socio-culturali che intervengono nell’insegnamento dell’italiano come LS ad apprendenti adulti. Considerato che non è possibile fornire coordinate metodologiche applicabili indistintamente ad ogni situazione operativa, il proposito fondamentale di questo contributo è di offrire alcuni punti di riferimento generali che possano consentire di orientare l’attività didattica in prospettiva andragogica.

 








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